Chi dice “don Raffaele” dice “carità”. Questo santo
sacerdote barlettano, pur di farsi prossimo soprattutto
degli ultimi e dei più bisognosi, non si è risparmiato
niente: né denaro, né carriera, tanto meno la salute. Per essi
lasciò nel 1924 la prestigiosa parrocchia di San Giacomo
Maggiore per riscattare dal degrado il periferico quartiere di
zona “Maranco”, con la fondazione del “Nuovo Oratorio San
Filippo Neri per la redenzione dell’infanzia abbandonata”. E
già a pochi anni di distanza i “miracoli” ottenuti grazie alla
sua ardita fede erano sotto gli occhi di tutti: dalle case dove
prima si udiva cattiveria risuonavano i canti sacri insegnati
dal “Direttore”. Alla sua scuola furono formate famiglie oneste
e un gran numero di vocazioni sacerdotali e religiose.
Lo stesso Servo di Dio ne restava sempre più meravigliato
per i risultati che otteneva: “Chi lo crederebbe - scrive
nel 1932 ad Addolorata Rizzi, sua intima e stimata collaboratrice
entrata tra le suore d’Ivrea, prendendo il nome di suor
Pia Raffaella - che in questo posticino della città, remoto
da ogni luce di civiltà e progresso umano, debbano fremere
tanti cuori in esplosione
di viva e santa carità da
trasportarci in atmosfere
celesti! Deo Gratias et
Mariae! Si ha voglia a
moltiplicare le distanze
centinaia di chilometri, a
moltiplicare mesi e mesi
di lontananza, la carità
vola e raccoglie in un
continuo atto meraviglioso
di presenza e vive...
vive, mia cara, allorché
sul quadrante del nostro
Oratorio suonano certe
ore, il Signore mi procura
delle gioie inesprimibili:
mi sento di essere
un padre felice di una
sì grande famiglia che
quantunque abbia parecchi
membri sparsi pel mondo hanno un medesimo palpito: Gesù; un medesimo
ideale: l’Apostolato; una medesima corda: l’Unum di Gesù
nell’ultima Cena”.
In questo quartiere povero e degradato il Servo di Dio,
oltre a far crescere nella fede, si preoccupò di venire in aiuto
anche economico a tante famiglie indigenti. Si prodigò, soprattutto,
di togliere dalla strada migliaia di bambini e impartire
loro gratuitamente l’istruzione scolastica, istituendo nel
1928, con sacrifici immani, la Casa degli Angeli e nel 1942
l’asilo infantile nei locali del Nuovo Oratorio San Filippo Neri,
dove garantì perfino la refezione giornaliera.
Ma la sua carità fu continua e senza limiti; infatti nel
1948, nonostante le gravose ristrettezze economiche causate
dal Secondo Conflitto Mondiale che ormai attanagliavano
l’intero Paese, don Raffaele, già minato in salute, rivolse il
suo sguardo principalmente agli orfani, dando inizio all’altra
istituzione del “Villaggio del Fanciullo”.
Tutta la sua esistenza sacerdotale è costellata di episodi
di carità fattiva e nel contempo “nascosta”, che hanno il sapore evangelico dei “Fioretti di san
Francesco”, di cui ne sono depositari
quelle tante famiglie che ancora conservano
immutata riconoscenza e gratitudine
nei confronti del nostro santo
sacerdote. Dagli atti processuali, che
supportano la sua santità, più testimoni
affermano che era prassi per mons.
Dimiccoli visitare gli ammalati per
confortarli religiosamente. Dove notava
situazioni di grande indigenza era
solito porre sotto i guanciali le somme
necessarie per l’acquisto dei farmaci.
Quell’attenzione particolare era rivolta
in un modo così delicato che mai
nessuno se ne accorgeva. Racconta
il rogazionista Ruggiero Dicuonzo: “Un
giorno i parenti di un ammalato, dopo
che il Direttore era stato in casa, videro
dei soldi per terra e, supponendo che
fossero del “Direttore”, glieli portarono
all’Oratorio. Ma lui affermò che non
erano suoi e che tuttavia potevano
utilizzarli per sovvenire alle loro necessità”.
Molte altre volte per l’esercizio della
carità si serviva di suoi fidati collaboratori
o collaboratrici. Apprendiamo da
Rosa Piazzolla, una testimone diretta: “Mio marito era emigrato in Francia
per ragioni di lavoro come muratore,
dovendo procurare il cibo alla famiglia;
lì, a causa di un incidente accaduto
durante il lavoro, restò cieco. Cademmo
nella miseria più nera. Il Direttore
sapendo in che condizioni si stava versando
non ci abbandonò, mantenendo
la nostra famiglia composta da me,
mio marito e quattro figli. Mensilmente
ci passava una certa somma e quotidianamente
tramite un ragazzo, con
molta discrezione ci faceva pervenire
in casa il cibo. Anche la sorella di don
Raffaele più volte ha provveduto alle
mie necessità. Mio marito disperato per
le condizioni in cui si ritrovava, spesso
veniva rasserenato dal Servo di Dio, il quale gli assicurava che gli sarebbe ritornata
la vista. Infatti dopo due anni e
mezzo mio marito riacquistò la vista e
riprese a lavorare. Attribuimmo questa
grazia alle preghiere del Direttore. La
sua carità nel soccorrere la mia famiglia
si protrasse per la durata di due
anni e mezzo circa”.
In questa ardua e avventurosa
missione verso gli ultimi e gli indigenti,
don Dimiccoli fu spinto dalla principale
sorgente che è lo stesso cuore di Cristo: “Sento compassione di tutta questa gente!”
(Mt 15, 32). Gareggiò in quest’opera
con i confratelli a lui contemporanei, totalmente
dediti nel nostro territorio per il
riscatto dei più bisognosi ed emarginati,
con i quali strinse rapporti di fraternità
e di stima. Si pensi al Servo di Dio don
Pasquale Uva di Bisceglie, al Servo di
Dio don Ambrogio Grittani, impegnato a
favore dei poveri della città di Molfetta,
e ai suoi amici d’infanzia, mons. Sabino
Cassatella, fondatore dell’Istituto Santa
Teresa del Bambin Gesù, istituzione
voluta a vantaggio dei piccoli del rione
Borgovilla di Barletta, e mons. Potito
Cavaliere, apostolo di carità nell’ambito
della parrocchia di Maria Santissima
Addolorata e dell’ospizio per anziani,
fondati dal medesimo in Margherita di
Savoia.
In merito a don Uva ricaviamo
da una testimonianza di Nicola Rizzi,
pronipote di mons. Dimiccoli: “Don
Raffaele conservava forti rapporti di
amicizia col Servo di Dio don Pasquale
Uva, fondatore della Casa della Divina
Provvidenza di Bisceglie, spesso si
scambiavano le visite: lui a Bisceglie,
don Pasquale a Barletta, per ragguagli
personali e per scambi spirituali. Spesso
don Raffaele inviava portatori di
handicap perché don Uva si prendesse
cura di loro nella sua Istituzione. La
stima era tale che non si estinse mai.
In fondo i due sacerdoti furono animati dallo stesso ideale: servire Cristo nei
poveri e negli emarginati”. I santi hanno
fiuto e sanno ben scegliere, orientandosi
verso il bene, e questo grazie
anche all’edificazione reciproca.
Il Santo Padre Benedetto XVI,
nell’aprile scorso, rivolgendosi ai
giovani e ai seminaristi presso il Seminario
di St. Joseph a New York ha
indicato alcune figure di santi, beati
e venerabili che hanno risposto “alla
chiamata di Dio ad una vita di carità”,
divenendo “straordinari tragitti di
speranza”.
Indicandoli quali esempi alle nuove
generazioni ha affermato: “a quanti
giovani è stata offerta una mano che,
nel nome della libertà o dell’esperienza,
li ha guidati all’assuefazione agli
stupefacenti, alla confusione morale
o intellettuale, alla violenza, alla perdita
del rispetto per se stessi, anzi alla
disperazione e così, tragicamente, al
suicidio? Cari amici, la verità non è
un’imposizione. Né è semplicemente
un insieme di regole. È la scoperta di
Uno che non ci tradisce mai; di Uno del
quale possiamo sempre fidarci.
Nel cercare la verità arriviamo a
vivere in base alla fede perché, in definitiva,
la verità è una persona: Gesù
Cristo. È questa la ragione per cui
l’autentica libertà non è una scelta di ‘disimpegno da’. È una scelta di ‘impegno
per’; niente di meno che uscire da
se stessi e permettere di venire coinvolti
nell’ ‘essere per gli altri’ di Cristo”.
Sappiamo seguire e imitare
l’esempio di questi nostri fratelli che ci
hanno preceduto sulla via della santità,
per amare e servire con generosità
Gesù in ciascuno di loro, e un giorno
saranno questi a prenderci per mano e
a introdurci in quel Regno di amore e di pace che non avrà mai fine.
Don Sabino Lattanzio |